Storie di sughi d’uva, e altre preparazioni
Un viaggio che parte dai sughi d’uva e porta lontano
19 novembre 2023
Premessa
In questo periodo ho attraversato alcune volte la pianura emiliana. Ma solo per andare in luoghi, senza fermarmi, se non per troppo poco tempo: peccato. Noi che andiamo in montagna sottovalutiamo la pianura, ma sbagliamo. Come esempio di cosa possiamo perdere, due foto al volo, fatte col telefono, di Reggiolo e Carpi…
Bene, era periodo di uva e ho ritrovato i sughi. Non solo mi hanno ricordato cose di tanto tempo fa, ma mi sono anche serviti per iniziare pensieri, paragoni, considerazioni, come può capitare per quasi tutti gli alimenti tradizionali.
Allora, intanto i sughi sono fatti con mosto d’uva, bollito fino ad addensarsi, a cui viene aggiunta farina; più o meno quando riprende il bollore, vengono tolti dal fuoco e fatti raffreddare e solidificare. I sughi sono stati, per molto tempo, il dolce tipico del periodo della vendemmia.
Cosa sono i sughi
Ho ritrovato quindi i sughi d’uva e, come normale, li ho comprati.
La conseguente conversazione con la fruttivendola, da parte mia, è incautamente scivolata in un: “Sono fatti con l’uva nera…”. E la risposta è stata perentoria. “Certo, i sughi non si fanno con l’uva bianca !”
Lì per lì, come ovvio, non ho detto niente, perchè era la verità: in quel luogo, evidentemente, i sughi sono di uva nera. E basta.
Allora ho ripreso quanto era nella mia memoria. Io li ricordavo anche fatti con uva bianca. In effetti, ecco qualche altra immagine, con una varietà di situazioni. Sughi fatti con uva bianca o nera, sughi fatti con uva bianca e farina di mais (gli sciughetti, marchigiani), sughi evoluti, con anche cioccolato e frutta secca. Poi variazione di nomi: sughi, sciughetti, sugoli e, certamente, non sarebbe finita qui.
Già da queste prime note, possiamo fare alcune considerazioni.
I sughi sono un esempio tipico di alimento tradizionale. Venivano preparati con quello che c’era: uva nera, bene; uva bianca, bene lo stesso. Farina di grano… si, ma, dove ce ne fosse poca, andava bene anche quella di mais. Se poi ci fosse stata la disponibilità di qualcosa d’altro per arricchire, perché non aggiungerlo ? Quindi, come per molti altri alimenti tradizionali, il “vero” sugo non esiste. O meglio, sono tutti veri. Tutti erano preparati usando le risorse disponibili; tutti servivano per variare un po’ la dieta e introdurre qualche piacere, che fosse alla portata.
Viaggio nello, spazio, altre culture, prodotti simili
Partendo da questo, mi sono spinto un po’ più in là, a quando ho viaggiato nella zona Caucasica, in Georgia ed Armenia. Qui è ancora mantenuta una varietà di cose che, a tutti gli effetti, sono come i nostri sughi, anche se non ci sono stato nel periodo dell’uva.
Il pelamushi
Cominciamo col pelamushi georgiano. Qui vediamo quello fatto con more di gelso, e farina di grano. Nel caso che ho visto, le more di gelso usate erano essiccate, reidratate in abbondante acqua, prima della bollitura. Ma, nel periodo dell’uva, l’ingrediente principale è, senza dubbio, il succo d’uva. Nella Georgia occidentale è soprattutto usata farina di mais, in quella orientale, di grano.
Il succo concentrato di more di gelso, per la preparazione di pelamushi. Aspindza, Georgia.
Questa procedura però richiede tempo. Prima, viene ottenuto il succo di frutta, che viene concentrato con la bollitura. Poi viene versata la farina, per ottenere una massa calda e viscosa. A questo punto, dopo tanto lavoro, non vale la pena fare solo il pelamushi. Anzi il pelamushi diventa quasi un prodotto secondario, rispetto ad altri due, che seguono.
Il tkhlapi
Se la pasta viene stesa in strato sottile, lasciato poi asciugare, si ottengono dei fogli che si conservano a lungo. Si chiamano Tkhlapi e possono essere fatti con frutti diversi. Ma attenzione: con frutti il cui succo condensa bene, quindi ricchi di pectine, non c’è bisogno di aggiungere farina per fare il tkhlapi. Sono quei meravigliosi fogli colorati che si trovano nei mercati georgiani e armeni, oltre che in altri posti, dove purtroppo non sono stato. In Armenia si chiama Ttu lavash (lavash astringente, acido); il lavash in realtà è un pane molto sottile… ma qui conviene che ci fermiamo.
Fogli di ttu lavash (equivalente del tkhlapi in Armenia), di frutti vari, ma senza farina. Mercato Mashtots, Erevan, Armenia.
La churkhela
Poi c’è la churkhela. Noci (o altra frutta secca) vengono infilate in spaghi; questi vengono immersi, in più riprese, nella pasta viscosa fatta dalla farina e succhi di frutta concentrati. Poi vengono appesi ad asciugare.
Tkhlapi e churkhela si conservano per molti mesi. Adesso sono considerati dei dolci, ancora molto popolari ovunque; a volte anche delle attrazioni per turisti. Fino a non molto tempo fa erano però alimenti energetici, facilmente trasportabili e conservabili: una risorsa da consumare nel tempo.
Churkhela in vendita, al mercato della stazione di Tbilisi, Georgia
Conclusioni
Bene, senza farla tanto lunga. E’ stupefacente quanto, alla faccia del campanilismo alimentare, risorse locali ed esigenze alimentari abbiano determinato la creazione di alimenti quasi identici, in zone tanto lontane. E questo era solo un esempio. C’è un filo che unisce, in tutto questo. Per vedere le cose con i propri occhi bisognerebbe potere viaggiare, ma viaggiare liberi, sia da costrizioni che da pregiudizi. Fuori da quei pacchetti organizzati che banalizzano qualsiasi cosa. Ma, per questo, ci vorrebbe la sicurezza e, quindi, la pace.
E’ un po’ una mia idea fissa: quella che gli alimenti tradizionali possano essere messaggeri di pace. Diciamolo, è un’idea sicuramente lontana dalla realtà attuale. Ma chissà, perchè perdere la speranza…
Sughi d’uva e pelamushi
Filippo D’Antuono – piudimille.com
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